Open/Close Menu La danza è indirizzata a chiunque e si applica nel campo dell’istruzione e della riabilitazione con persone che hanno difficoltà relazionali o psichiche, disabilità fisiche o sensoriali.

Il Nepal, la miseria, le rondini e la danza
di Pio Campo

Compro dell’acqua in uno dei migliaia di negozietti che si accalcano nei vicoli di Kathmandu. Vendono un po’ di tutto, principalmente prodotti che imitano marche straniere e che a me sembra contengano cibo non molto sano, dall’aria vagamente plastificata. Guardo le rondini che hanno fatto il nido dietro al neon, sopra il bancone. Le vedo indaffarate nei loro voli mirati alla cura di una prole affamata, come tutti qui.
Ancora prima che glielo chieda, Shree Ram, il ragazzo nepalese che studia danzaterapia con me e mi guida nel labirinto cittadino, mi spiega che le rondini sono considerate uccelli di buon auspicio ed è un ottimo segno per un negoziante che il suo stabile sia stato scelto da loro.
Ali piccole e nere che si tuffano nell’ombra degli scaffali per poi rincontrare, un secondo dopo, i cieli plumbei di questa stagione.

È il Nepal dei monsoni. Una pioggia calda e abbondante trasforma le strade in scarmigliate signore maleodoranti, vestite di rifiuti ed escrementi. Camminare è un’impresa difficile, soprattutto di sera, se manca l’energia elettrica, e i passi devono avventurarsi in un’attenta sequenza affidata all’unica, esile, speranza di non affondare in qualcosa di poco gradevole. Sono strade martoriate dalla miseria, da scioperi e manifestazioni continue; studenti che prendono a sassate i taxi, guidatori di mezzi pubblici che protestano contro l’aumento della benzina e bloccano le vie di comunicazione rendendo il traffico ancora più caotico, incomprensibile, assordante. Non si sa mai se ci si riuscirà a spostare, in quanto tempo, in che modo.
Vedo la polizia arrestare ancora monaci tibetani in protesta di fronte alle ambasciate, scorgo segni di rivolta contro il re deposto e contro il nuovo governo che evidentemente non riscuote grandi simpatie. Ma tutto questo sembra anche la trama di piccoli gruppi che manipolano i manifestanti mentre la stragrande maggioranza della popolazione continua a marciare su cammini paralleli, avvolta da una fitta coltre di miseria, mancanza di prospettive, malattia, sudiciume, morte. Tutto pare marcire, soffrire, spegnersi, anche il cuore a volte. Non vedo speranza, solo un mare grigiastro di rassegnazione.

“Cosa sognavi prima di sposarti?”, chiedo a Shree Ram.

“Niente, avevo già smesso da tempo di desiderare qualcosa. Qui i sogni sono i primi a sparire di fronte alla difficoltà che avvolge ogni cosa e frantuma la speranza in piccoli pezzi”.

Le sue risposte laconiche mi ammutoliscono sempre di fronte all’ineluttabilità dell’evidenza, come quando un giorno mi ha detto: “Tu puoi prendere tutti gli aerei che vuoi e andartene, io sono condannato a rimanere qui e sopravvivere”.

È un mondo malato, questo, ma che del resto ho respirato anche in Italia, nell’infinita tristezza per un quadro politico che suscita inquietanti interrogativi sul futuro, sul presente… Ripenso agli incontri di danza durante i quali avverto segni di una umanità possibile. Mai come oggi è evidente che l’emozione del movimento rigenerante non può far scaturire una schizofrenia collettiva, uno “star bene” fine a se stesso.
Cerco piuttosto nella danza anche la dimensione politica che le appartiene, nella misura in cui il gesto ricrea una relazione diversa, profondamente umana. Se questo stare assieme non facesse nascere piccole proposte di società alternative in cui l’amore restituisce anche la dimensione del sogno e della giustizia, a cosa servirebbe danzare?
Uno degli Shelter qui a Kathmandu in cui la danza entra con questa proposta ospita circa venti donne con una storia di violenza domestica alle spalle. Alcune hanno il volto e forse il corpo bruciato. Mi commuovo nel vederle tutte più libere man mano che ci incontriamo, con movimenti e sorrisi sempre più aperti.
Condivido con gioia insieme a loro la consapevolezza che il cambiamento avviene prima di tutto dentro di noi, nel corpo che racchiude la nostra essenza. Sono meravigliose quando si schiudono.

Il ricordo del primo incontro in cui, per l’imbarazzo e la vergogna, riuscivano solo a ridere fino alle lacrime, lascia oggi il posto a un movimento più consapevole, ampio, che ripete nel suo fluire la sua adesione alla vita, al senso e al sentire.
I loro sguardi compensano la fatica dell’ambiente minuscolo in cui ci ritroviamo, del caldo che ci sfianca, della fatica per raggiungerle.
Al loro respiro si affianca quello di altri compagni di questa avventura. Sono il gruppo di persone destinate a vivere in un ospedale psichiatrico. Dalle barriere di una mente che si è persa, riemergono anche loro con una danza che afferma il desiderio di gioire e di amare.

Penso che sono fortunato perché ho trovato il senso dei miei giorni. La danza mi risolleva e mi spinge avanti costantemente.

Posso aprire lo sguardo su una realtà che, per quanto tremenda, può essere affrontata con un movimento che invita alla trasformazione.
Piccoli segni di speranza, piccoli sogni, piccoli battiti.
Dall’ingresso del negozietto buio dove le rondini nidificano, osservo i loro voli sulle strade fangose. Sono inutili e potenti come poesie. Mi unisco a loro e riesco a intravedere uno squarcio luminoso.

E per un attimo Kathmandu è il posto più bello del mondo, è la città della gioia.

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